Jagganath
Karin Tidbeck
€ 15.20
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Traduzione: Cristina Pascotto
Pagine: 176
Isbn versione cartacea: 9788832107050
Opera vincitrice del Crawford Award e finalista per il World Fantasy Award 2013
Creature dalla nascita enigmatica, centralinisti in contatto con l’Inferno, immense donne avviluppate nei paradossi di un giardino senza tempo: questi sono solo alcuni dei protagonisti che abitano gli infiniti universi di Jagannath, in cui accelerazioni futuristiche ed echi ancestrali convivono seguendo orbite inconsuete. Ciascuno di essi manifesta l’esistenza di mondi dalle leggi seducenti e impossibili che si riveleranno pienamente solo a una condizione: abituare gli occhi alla vista di tutto ciò che è pensabile – e perciò possibile.
Karin Tidbeck vive e lavora a Malmö come scrittrice e traduttrice di speculative fiction in lingua svedese e inglese. La sua prima raccolta di racconti, Vem är Arvid Pekon?, è stata pubblicata in Svezia nel 2010, mentre il suo debutto in lingua inglese è avvenuto nel 2012 con Jagannath, opera vincitrice del Crawford Award e finalista del World Fantasy Award. Il romanzo Amatka (Safarà Editore, 2018) è stato finalista del Locus Award nel 2018. Il suo secondo romanzo, The Memory Theatre, è uscito nel febbraio 2021.
«Misurata e intensa, calma e singolare, Tidbeck, con le sue armonie impossibili, è una voce essenziale».
China Miéville
«Tranquillamente, intelligentemente, indicibilmente strane. Inquietanti e divertenti. Misteriosamente tenere. Queste storie sono meravigliose».
Ursula K. Le Guin
«L’ombra del perturbante aleggia su molte di queste tredici storie, spesso ambientate in un Nord nel quale la tormentata malinconia svedese (svårmod) si fa “dolore assorto per qualcosa che è finito”, oppure “silenzioso desiderio per qualcosa che non c’è”».
Fabio Zucchella, Blow Up
«Sono storie brevi, folgoranti, racconti di altri luoghi, altri soli. […] Sono finestre, anzi fessure in cui posare lo sguardo e spiare i mondi (alieni?) evocati dalle parole di Tidbeck, squarci nel tessuto dello spazio-tempo in cui si incrociano nuovi tempi e nuovi spazi».
Barbara Berardi, Tuttolibri
«Come nella miglior tradizione borgesiana, qualcosa di meraviglioso – e strano – accadrà se aprirai questo libro».
NPR
«In alcuni luoghi, il tempo è un fenomeno debole e occasionale. A meno che qualcuno non reclami il suo scorrere, potrebbe non manifestarsi affatto, o anche solo parzialmente; gli eventi si avvolgono su sé stessi in cerchi e spirali.
L’aranciera è uno di questi luoghi. Si trova all’interno di un meleto, che si estende ai margini di un orto botanico. L’aria è densa di umidità e carica dell’opprimente dolcezza odo- rosa del lievito della frutta troppo matura. Meli dai tronchi nodosi e dalle luminose foglie gialle fiammeggiano contro il freddo cielo color porpora. Globi rossi pendono gravi sui loro rami. L’aranciera non ha visitatori. Il luogo appartiene a un particolare reggente i cui giardini sono perlopiù popolati da nobili pomposi del tutto disinteressati al frutteto. Non ha servitori né offre alcun intrattenimento. È necessario camminare per raggiungerlo e la frutta è farinosa.
Ma nel caso in cui a qualcuno fosse capitato di passeggiare tra i suoi alberi, li avrebbe trovati allineati per lunghissimo tempo, ognuno pressoché identico all’altro. (Se qualcuno avesse voluto contarne i frutti, avrebbe scoperto anche che ogni albero possedeva esattamente lo stesso numero di mele). Se questo visitatore avesse fatto dietrofront per fuggire verso la sicurezza delle zone più raffinate dei giardini, avrebbe visto gli alberi sparpagliarsi e la sfera d’argento e vetro dell’aranciera emergere dal terreno. Avvicinandosi, questo è quello che avrebbero visto:
L’interno delle pareti di vetro ricoperte da una sottile pellicola marrone, densa di respiri e vapore. Dentro, quindici aranci disposti lungo la curva della cupola; quindici alberi, più piccoli, invasati, inscritti in un cerchio intorno ai primi. Una lastra di marmo a coprire il centro, dove tre cuscini alla francese sono attorniati da tavolini rotondi. I divani sprofondano sotto il peso di tre donne gigantesche.
Le Zie adempievano a un unico, sacro compito: espandersi. Accumulavano lentamente strati di grasso. Una coscia divisa in due avrebbe rivelato una trama di anelli concentri- ci, il grasso colorato secondo diverse tonalità. Sul divano di mezzo era adagiata la Prozia, la più grassa delle tre. Il corpo le fluiva dalla testa come onde di panna montata, braccia e gambe come mere protuberanze che si sporgevano dalla sua magnifica massa».