Amatka
Karin Tidbeck
€ 15.20
5% Off
Traduzione: Cristina Pascotto
Pagine: 228
Isbn versione cartacea: 9788897561880
Finalista di Modus Legendi
Nel mondo che i Pionieri hanno colonizzato valicando un confine di cui si è persa ogni traccia, gli oggetti decadono in una poltiglia tossica se il loro nome non viene scritto e pronunciato con prefissata frequenza. Per evitarne la distruzione, un comitato centrale veglia severamente sulle parole pronunciate dagli abitanti delle colonie, perché la vita in un mondo minacciato dalla disgregazione richiede volontà e disciplina. Vanja, cittadina di Essre, viene inviata dalla sua comune nella gelida colonia di Amatka e troverà ad attenderla i primi fuochi di una rivoluzione sotterranea giocata sulla potenza del linguaggio. Suo malgrado, Vanja dovrà così affrontare le possibilità che si celano dietro il velo di blanda oppressione che assopisce i pensieri e le parole del popolo di Amatka.
Karin Tidbeck vive e lavora a Malmö come scrittrice e traduttrice di speculative fiction in lingua svedese e inglese. La sua prima raccolta di racconti, Vem är Arvid Pekon?, è stata pubblicata in Svezia nel 2010, mentre il suo debutto in lingua inglese è avvenuto nel 2012 con Jagannath, opera vincitrice del Crawford Award e finalista del World Fantasy Award. Il romanzo Amatka (Safarà Editore, 2018) è stato finalista del Locus Award nel 2018. Il suo secondo romanzo, The Memory Theatre, è uscito nel febbraio 2021.
«Misurata e intensa, calma e singolare, Tidbeck, con le sue armonie impossibili, è una voce essenziale».
China Miéville
«Il mio libro preferito degli ultimi anni, un classico istantaneo».
Jeff VanderMeer
«Un romanzo indimenticabile […] in egual misura Le Guin, Kafka e Borges».
The Guardian
«Nel suo romanzo acuto e bizzarro, Karin Tidbeck evoca con precisione una realtà distopica, in un crescendo inquietante».
Helen Phillips
«Uno spaventoso ritratto di una realtà post-verità».
NPR
Vanja Essre Due di Brilars, consulente per gli Specialisti d’Igiene di Essre, era l’unica passeggera del treno diretto ad Amatka. Non appena ebbe salito i gradini la porta si chiuse alle sue spalle, e il treno sobbalzò in avanti. Vanja strinse con più forza la borsa a tracolla e la custodia della macchina da scrivere, e con il piede spinse la valigia oltre la porta scorrevole. L’altro scompartimento era immerso in una perfetta oscurità. Procedette a tentoni lungo il muro e trovò un interruttore vicino alla porta. La luce che baluginò era debole e gialla.
Lo spazio angusto del vagone passeggeri era spoglio a eccezione delle cuccette di vinile marrone che ricoprivano i muri e le griglie per le valigie, ricolme di coperte e cuscini sottili, abba- stanza grandi da potervi dormire sopra. Era stato costruito per la migrazione, per trasportare pionieri verso nuove frontiere, e la sua capienza, ora, era priva di scopo.
Vanja lasciò le sue borse vicino alla porta e si sedette su ognuna delle cuccette. Erano tutte rigide e scomode in egual misura. La fodera sembrava scivolosa, ma al tatto si rivelava spiacevolmente ruvida. Scelse la cuccetta all’angolo del lato destro, dove sarebbe stata vicina alla sala comune e avrebbe avuto una buona visuale del resto della carrozza. Ogni cosa le rievocava vagamente il dormitorio della Casa dei Bambini Due di molto tempo prima: gli stessi materassi di vinile sotto le lenzuola, lo stesso persistente odore di corpi. Ma allora la stanza era stata piena di bambini, e del suono delle loro voci.
Diede uno sguardo alla piccola stanza comune. L’unica finestra della carrozza si trovava sul muro di destra, bassa e ampia con angoli arrotondati e una tendina avvolgibile. A un’osservazione più attenta non si rivelò una finestra ordinaria, bensì uno schermo bianco che s’illuminava premendo un bottone. Probabilmente intendeva sostituire la luce diurna. Al di sotto dello schermo, un tavolo e quattro sedie erano state fissate al pavimento. Uno dei due alti armadi sul lato opposto della stan- za conteneva un piccolo gabinetto con un lavandino, l’altro una piccola dispensa con conserve e radici commestibili fresche. Ogni cosa era contrassegnata da lettere ampie e rassicuranti: lavandino, dispensa, tavolo. Quell’area puzzava vagamente di letame, un odore che proveniva dal bagno oppure dai container che viaggiavano nella parte anteriore del treno.
Vanja andò a prendere le sue valigie e slacciò le fibbie. Una di queste sembrava sul punto di cedere. Era stata il regalo di qualcuno, che a sua volta l’aveva ereditata da qualcun altro, e così via. In ogni caso, non sarebbe durata a lungo: la parola valigia era quasi illeggibile. Avrebbe potuto ricalcare le lettere, certo, ma la domanda era cosa sarebbe accaduto prima – la valigia si sarebbe semplicemente sgretolata per l’usura oppure si sarebbe dissolta, una volta riposta. Avrebbe dovuto distruggerla.
«Valigia» sussurrò Vanja per mantenerla nella sua forma ancora per un po’. «Valigia, valigia».