La bella buracrate
Helen Phillips
€ 16.00
Traduzione: Cristina Pascotto
Pagine: 176
Isbn versione cartacea: 9788897561705
«Narrata con il tocco lieve di Calvino e il cuore caldo di Saramago, questa piccola fiaba nera è divertente, cupa, spaventosa e bellissima. La adoro».
Ursula K. Le Guin
In un edificio privo di finestre in un remoto quartiere di un’immensa città, la nuova assunta Josephine immette una serie infinita di numeri in un programma conosciuto solo come Database. Mentre i giorni si inanellano l’uno all’altro insieme alle pile di indecifrabili documenti, Josephine sente nascere dentro di sé un’inquietudine sempre più sottile e penetrante. Dopo l’inspiegabile sparizione di suo marito, in un crescendo vertiginoso Josephine scoprirà che la sua paura, divenuta oramai terrore, era pienamente giustificata.
Helen Phillips è autrice dell’opera And Yet They Were Happy, nominata tra le migliori raccolte del 2011 da The Story Prize. È la vincitrice del Rona Jaffe Foundation Writer’s Award, dell’Italo Calvino Prize in Fabulist Fiction, The Iowa Review Non fction Award, e del Diagram Innovative Fiction Award. I suoi lavori sono apparsi in NPR’s Selected Shorts e in Tin House. Vive a Brooklyn con il marito, l’artista Adam Douglas Thompson, e i loro figli.
«Una maestra nel creare mondi leggermente obliqui del tutto somiglianti al nostro».
Los Angeles Times
«Una parabola seducente».
Vanity Fair
«L’ibrido tra quotidianità più comune e deformazione fiabesca che propone ha una originale e spiazzante forza narrativa».
Elisabetta Rasy, Il Sole 24 Ore
«La bella burocrate è fiabesco, visionario, distopico, consapevole di Franz Kafka e di David Lynch, inaspettatamente sentimentale, a volte».
Tiziana Lo Porto, D di Repubblica
«Un romanzo che riflette sulla tendenza della tecnologia a registrarci come numeri piuttosto che come individui».
Il libraio
«La scrittrice mescola le atmosfere angoscianti della precarietà e della spersonalizzazione a una vena sentimentale che riemerge, a ogni fine giornata, quando Josephine e Joseph si ritrovano nei loro tristi giacigli contrapponendo alla durezza del vivere la dolcezza della loro complicità».
Corriere della Sera
«Un’irresistibile e insolita messa in scena nella quale l’amore tra Joseph e Josephine – giocoso, solidale, intimo – li forgia per la tempesta esistenziale e metafisica che si scatena intorno a loro».
The New York Times
La persona che la intervistò non aveva la faccia. In altre circostanze – se il mercato del lavoro non fosse stato così squallido da così tanto tempo, se l’estate non fosse stata così cupa e afosa – questo avrebbe potuto scoraggiare Josephine dall’attraversare la porta di quell’ufficio fin dal primo momento. Ma per come stavano le cose il suo primo pensiero fu: oh, perfetto, l’aspetto dell’intervistatore probabilmente ha scoraggiato gli altri candidati!
L’illusione della mancanza di faccia fu, come è ovvio, quasi immediatamente spiegabile: la pelle dell’intervistatore aveva la stessa tonalità grigiastra del muro alle sue spalle, gli occhi erano oscurati da un paio di occhiali altamente riflettenti, la fluorescenza appiattiva i lineamenti assemblati sopra l’asessuato completo grigio.
Tuttavia, l’impressione persisteva.
Josephine posò il suo curriculum sull’enorme scrivania di metallo e lisciò la gonna del suo modesto ma ordinato completo marrone. L’intervistatore teneva in mano una boccetta di bianchetto, con il quale lui (o lei?) le indicò una sedia di plastica.
Le labbra, secche e debolmente sorridenti, si separarono per rilasciare il peggiore alito che Josephine avesse mai odorato, mentre l’intervistatore le chiedeva se avesse visto qualcosa di in- solito sulla strada per il colloquio.
La cosa più insolita che aveva visto lungo la strada per il colloquio era l’edificio in cui ora si trovava. Uscendo dalla stazione della metropolitana, svoltando l’angolo e avvicinandosi all’in- dirizzo stabilito, si era sorpresa di ritrovarsi di fronte a una vasta struttura di cemento senza finestre che si snodava senza fine lungo l’isolato, in quello che altrimenti sarebbe stato un modesto quartiere residenziale. Il muro di cemento era interrotto a intervalli regolari da spesse porte metalliche. Il lato dell’edificio aveva delle enormi, seppur sbiadite, A e Z sovrapposte l’una all’altra in modo che fosse impossibile sapere quale dovesse essere letta prima. Un’angusta striscia di erba mezza morta separava l’edificio dal marciapiede. Come da istruzioni, aveva raggiunto la porta denominata Z; difatti, quella fu la prima porta che incontrò, evento che decise di reclamare come presagio positivo. L’ascensore era lento. I corridoi di cemento ronzavano di un suono ansioso, non identificabile.
«No» mentì Josephine.
«Lei è sposata» chiese La Persona con l’Alito Cattivo, o dichiarò, come se questo fosse un corollario alla prima domanda.
«Sì» disse, sorpresa dallo scoppio di gioia nella sua voce; dopo cinque anni, sentiva ancora come una novità essere sua moglie. Pochi mesi prima, qualche giorno dopo essersi trasferiti in quella città sconosciuta, mentre stava aprendo scatoloni nell’appartamento appena preso in affitto, aveva pensato: dunque l’evoluzione ha fatto in modo di culminare davvero in questo? Questo cucchiaio, questa tazza, questo piatto; noi, qui.